L’obbiettivo di questa serie è quello di alleviare il peso del dramma della malattia mentale così che possiamo sentirci liberi di essere chi siamo l’uno con l’altro. Siamo una comunità di fede cosciente di non essere un ospedale o un’istituzione psichiatrica, io sono un pastore e non un dottore, nessuno ritiene di essere un terapeuta o un paziente. Dunque facciamo semplicemente parte della stessa famiglia di fede e siamo dei fratelli e delle sorelle in Gesù.

Ciò non significa che, il tema della salute mentale non si possa discutere tra di noi ovvero in un contesto di famiglia, nonostante siamo ben consapevoli di non essere degli esperti.

Tuttavia, come chiesa dovremmo però, essere esperti nell’imparare ad amare come Gesù ha fatto. Questo studio ci aiuterà quindi, a comprendere più in profondità l’argomento della “salute della mente”, intesa come un’opportunità al fine di diventare la versione più amorevole di noi stessi; di sicuro ciò avrà un impatto sul modo in cui accoglieremo coloro che, vivono questi problemi.

A tal proposito, l’apostolo Pietro disse:

“Avendo purificato le anime vostre con l’ubbidienza alla verità mediante lo Spirito, per avere un amore fraterno senza alcuna simulazione, amatevi intensamente gli uni gli altri di puro cuore” (1 Pietro 1:22).

 Pertanto, ogni comunità di fede è chiamata ad approfondire anche aspetti relativi a questa particolare area di interesse, cercando di comprendere tutti quei modi in cui poter amare di più.

“L’amore è paziente, è benigno; l’amore non invidia, non si mette in mostra, non si gonfia, non si comporta in modo indecoroso, non cerca le cose proprie, non si irrita, non sospetta il male; non si rallegra dell’ingiustizia, ma gioisce con la verità” (1 Corinzi 13:4-6).

Quindi l’amore non è sentimento, una disposizione emotiva o una relazione amorosa, tutte cose che di fatto potrebbero avere anche la loro importanza ma secondo la prospettiva di Gesù, l’amore è al di sopra di tutte queste congetture o definizioni. Si tratta di un impegno profondo l’uno verso l’altro.

Qui di seguito, sono riportati alcuni dati statistici da prendere in esame: – In Italia circa una persona su tre soffre di un disturbo mentale e su 18 milioni di italiani circa 4 mila sono i suicidi registrati ogni anno nel nostro Paese-. Inoltre da questi dati si rileva che, oltre il 5% vede protagonisti soprattutto ragazzi al di sotto dei 24 anni. Molte sono le persone che, hanno timore di sostenere emotivamente coloro che soffrono di malattie mentali caratterizzate da una certa gravità.

Tuttavia, io resto dell’opinione che le malattie mentali possano essere soggette ad un’errata valutazione, in quanto appaiono come qualcosa di sconosciuto e ciò può suscitare timore.

 Parte del privilegio dell’essere chiesa consiste nel coinvolgersi vicendevolmente nella vita l’uno dell’altra, respingendo così la paura. Dunque il nostro desiderio è quello di rappresentare una comunità di persone che si incontrano e si riuniscono con il proposito di contrastare qualsiasi forma di pregiudizio, bigotteria e paura che potrebbero indurci ad esprimere facilmente giudizi verso l’altro.

 La chiesa dovrebbe cercare di entrare in empatia con le persone, porgendo loro una mano soprattutto nei momenti di difficoltà.

A tal proposito, vorremmo incoraggiare la nostra comunità ad amare nel modo più profondo il prossimo, inducendo le persone ad aprirsi ed a non nascondere i propri problemi ed afflizioni ma incoraggiandole ad intraprendere la via verso la scoperta della propria autenticità.

Qui di seguito leggeremo la testimonianza di una donna che fa parte della nostra comunità di fede e che in passato ha avuto dei seri problemi con la depressione.

Intervista e testimonianza di Joanna Goodman.

Intervistatore: “Signora Goodman sono a conoscenza del fatto che, lei abbia un passato vissuto nella fede e che tuttora, viene invitata in diverse chiese per testimoniare la sua storia. Tutto questo nonostante lei abbia vissuto un problema di salute mentale, cosa vorrebbe dirci al riguardo?”

Joanne Goodman: “Buongiorno a tutti, si certo! Vorrei iniziare dicendo che spesso, questo, non è un argomento facile da affrontare nelle chiese. Io ho un passato religioso carismatico, nel quale ci veniva richiesto di dover essere sempre felici. Ciò per me risultava molto difficile, perché avevo delle tendenze suicide e non comprendevo il significato della felicità o come altre persone riuscissero a gioire ed essere felici. In particolare, nella chiesa dove sono cresciuta spesso ci veniva chiesto di alzarci in piedi e di raccontare la propria testimonianza di fede. Di solito la persona iniziava raccontando quanto fosse stata male e persa fino al momento in cui avrebbe conosciuto Gesù e che dopo quel momento, avrebbe finalmente trovato la felicità assoluta.

Altri invece, raccontavano di come erano stati fortemente dipendenti dall’alcol o dalla droga e che dopo aver conosciuto Gesù, si sentivano finalmente liberi e felici.

Io non mi alzavo mai perché la mia storia personale faceva schifo. Avrei detto che durante la mia vita avevo sempre sentito il bisogno di morire e che ero fortemente infelice fino al momento in cui riuscì a conoscere Gesù e….che continuavo a sentirmi nello stesso modo.

Intervistatore: Esiste una tradizione nella chiesa in generale, che consiste nel raccontare le proprie storie di vita, che sembrano quasi quasi dei “testimonial di marketing” per pubblicizzare un prodotto. Di solito, le persone parlano di come era la loro vita prima di conoscere Gesù e di come si fosse trasformata dopo.

Dunque è molto comune la tendenza di fare dei racconti personali, descrivendo quanto fosse stata orribile la vita prima di conoscere Gesù e di come dopo tutto è tramutato in luce. Signora Goodman, lei questo voleva intendere? In queste testimonianze quando le persone parlano del buio, della sofferenza, del dolore o della depressione, in realtà viene messa in risalto la loro vita passata. Dunque per quanto da una parte ciò è bello ed importante, perché si cerca di dare speranza a coloro che ascoltano, dall’altra parte questa attitudine può indurre a chi non ha avuto quel tipo di esperienza a mettersi molto in discussione ritenendosi persone non meritevoli, pensando quindi erroneamente di avere in loro qualcosa di sbagliato. A questo punto, continui pure Joanna”.

Joanna Goodman: “Ho letto recentemente un articolo in cui veniva citata questa espressione: “Amo Gesù con tutto il cuore ma ho delle tendenze suicide”. Non pensavo che si potesse vivere qualcosa del genere, ma si può. Non sapevo come reagire, pensavo di essere una cristiana debole.

 Intervistatore: Quindi lei ha occultato questa sua sofferenza interiore, pensando che ci fosse qualcosa di sbagliato in lei tale da, farla sentire in colpa?

Joanna Goodman: Pensavo di non essere abbastanza forte spiritualmente, pensando ai diversi modi in cui avrei potuto porre fine alla mia vita. In particolare, ricordo che quando avevo quarant’anni stavo vivendo un momento molto difficile, direi uno dei peggiori della mia vita e decisi di andare in farmacia per comprare un numero di pillole sufficienti a porre fine alla mia esistenza. Fu in quel momento che pensai: “forse c’è qualcosa che non va in me”. Dunque arrivai alla conclusione che forse avevo dei problemi mentali tali per cui, decisi di rivolgermi ad uno psichiatra. Dopo otto incontri lo psichiatra mi disse: “Joanna, ci sono tante persone come te caratterizzate da disturbi umorali di una certa gravità…”. Ed io risposi: “Cosa…? Ho dei disturbi umorali?? Sono per caso pazza?”. Lui mi rispose dicendo che, soffrivo di uno sbilancio biochimico- fisiologico e ciò richiedeva un trattamento farmacologico. A quel punto, io che ero consapevole di far parte di una chiesa gli dissi che assumere farmaci non sarebbe stata una valida opzione, visto che sono anche tedesca e noi siamo soliti ripetere a noi stessi di essere “sani come pesci”. Infatti, ricordo che nella mia famiglia prendevamo in giro le persone che prendevano le aspirine chiamandole “pappa molle”. Inoltre, mio marito era pastore di quella comunità e per insegnamento ricevuto, non avrei dovuto prendere dei farmaci per sentirmi meglio. A tal proposito, quando dissi allo psichiatra di non voler assumere farmaci lui mi rispose che avrei perso dei chili e a quel punto …accettai subito (ahaha). L’unico motivo per il quale iniziai la cura fu per quello. Non credevo che una pillola avrebbe fatto svanire il mio dolore, lo consideravo sciocco. Dopo aver assunto i farmaci devo dire che, non riuscì a perdere dei chili tuttavia raggiunsi un certo equilibrio emotivo mai sperimentato prima in tutta la mia vita. Dopo un po’ riflettendoci su, mi chiesi come mai provassi vergogna di questo. In verità non mi sarei sentita così se avessi avuto una qualsiasi altra malattia. Poi cominciai a notare altri che erano come me e sentì il desiderio di aiutarli. Conclusi che, non avrei dovuto nutrire vergogna nell’ essere malata, quindi iniziai a parlare agli altri di questo problema.

 Intervistatore: “Trovo curioso che la chiesa invece di dargli una mano a guarire divenne una delle principali cause del tuo isolamento, della sua vergogna e del suo bisogno di nascondere ciò che era, quindi l’opposto di ciò che una chiesa sana dovrebbe fare”.

Joanne Goodman: “Pensavo di essere cattiva e di non essere abbastanza ferma sul mio cammino con Gesù. Nella Bibbia il versetto di Isaia 26:3 indica che: “La mente che riposa in te custodisce una pace perfetta, perché essa confida in te”. Quindi secondo questo versetto, il rimanere focalizzati sull’immagine di Cristo dovrebbe donare la pace. La triste verità è che chi è clinicamente depresso non riesce a farlo”. Intervistatore: Ciò mette in evidenza che i nostri spiriti, le nostre anime e le nostre menti vengono mediate dal cervello, un organo del corpo che potrebbe essere malato. Signora Goodman lei ha detto anche che fino a qualche tempo fa, ha avuto notevoli difficoltà a far comprendere questo aspetto alle persone all’interno della chiesa?”

Joanna Goodman: “Esattamente, tutto questo è dovuto al fatto che da sempre esiste una dottrina che induce ad avere una certa paura ad iniziare una terapia basata sull’assunzione di farmaci. Infatti proprio nel 2013 fu condotto un sondaggio nelle chiese evangeliche da cui emerse che, il 53% dei pastori riteneva che la depressione clinica potesse essere guarita solo tramite gli studi biblici e la preghiera. Ciò è a dir poco scioccante!!! Pensavo che le persone di chiesa fossero più emancipate!”

 Intervistatore: “In altre parole quei pastori pensavano che una malattia come la depressione clinica (in cui c’è un organo del corpo che è disfunzionante), avrebbe come unica risoluzione l’approccio con lo studio biblico e con la preghiera”.

Joanna Goodman: “Inoltre ci terrei a precisare che, circa un anno e mezzo fa i farmaci che normalmente assumevo persero la loro efficacia per cui, decisi di cambiare trattamento farmacologico da cui ne ho tratto un certo beneficio. Quindi ciò che intendo dire è che quando non funzionavano più, iniziai di nuovo a sprofondare nell’abisso più buio. In particolare, ricordo di aver aperto il cuore ad un pastore amico mio esternandogli il mio malessere e lui mi chiese se stessi dedicando parte del mio tempo alla lettura della parola ed alla meditazione. A tal proposito, mi venne spontaneo chiedergli il motivo per il quale non mi aveva chiesto cose del genere, quando due anni prima mi ammalai di cancro. Dunque il mio amico pastore con quelle sue parole intendeva dire che, se avessi letto la Bibbia e meditato profondamente non mi sarei più sentita in quel modo”.

 Intervistatore: “Quindi Signora Goodman a detta loro, la malattia mentale è quindi associata ad un certo fallimento spirituale. Aggiungerei dicendo che, è’ incoraggiante sapere che sia libera da quel peso”.

Fine dell’intervista

Attualmente problematiche come la depressione ed il disturbo dell’ansia, sono argomenti di cui si può parlare con grande libertà. Io ho sofferto di disturbo dell’ansia in tutti i suoi livelli di gravità, per gran parte della mia vita adulta. Sono molto introverso e soffro anche di agorafobia in modo leggero (ossia sensazione di paura o di grave disagio che un soggetto prova quando si ritrova in ambienti non familiari o comunque in ampi spazi all’aperto o affollati inducendo ad avere timore di perdere il controllo della situazione, per cui il bisogno di cercare una via di fuga immediata verso un luogo considerato più sicuro).

 Inoltre sono anche dislessico e quindi ho una certa difficoltà a leggere. Siccome nel mio lavoro è necessario leggere molto così come parlare e trasmettere insegnamenti ad un’ampia platea di persone, ciò fa sì che io sia spesso preda di un’ansia incontrollata al punto di esplodere; ciò può capitare anche una volta all’anno.

Quando accade ciò mi isolo in un angolino ed inizio a piangere e non riesco a spiegare il motivo del mio disagio, visto che spesso ciò non è correlato ad alcun evento particolare. In particolare ricordo che, una volta accadde ciò durante un incontro insieme allo staff ed un’altra volta ancora durante una visita in una delle nostre chiese. Essere parte di una squadra di fratelli e sorelle mi commuove, sono stati sempre al mio fianco.  

Per me è molto bello ed importante poter condividere apertamente queste mie esperienze negative. Ciò accade di rado ed è molto strano, ma ho sempre saputo che se facessi finta di essere qualcuno che non sono, ciò mi avrebbe scollegato dalla vita che Dio ha reso possibile vivere l’uno attraverso l’altro.

 La mia gioia non consiste solo nell’essere parte integrante di una comunità ma anche nel sentirmi libero di manifestare chi sono e tutto ciò che ha segnato la mia vita, incluse le esperienze negative.  Dunque è preponderante ammettere che tutto ciò fa parte della nostra natura umana.

Quindi l’obbiettivo di questa serie è quello di alleviare il peso del dramma relativo alla malattia mentale così che possiamo sentirci liberi di essere chi siamo l’uno con l’altro.

Infatti la nostra convinzione si basa sul fatto che, tutta la Scrittura in un modo o nell’altro ci guidi verso Gesù aiutandoci a comprendere meglio la Sua Persona. Perciò cerchiamo di tenere sempre i nostri occhi fissi su Gesù e di mettere in pratica ciò che impariamo da Lui. Questo processo di cambiamento è qualcosa che cerchiamo di applicare insieme come comunità viso a viso, coinvolgendoci nella vita dell’uno e dell’altro attraverso la realtà di chiesa da intendersi come “comunità familiare”. Ciò ci aiuta inevitabilmente a risolvere ogni nostra problematica e/o difficoltà in modo interattivo e relazionale.

Grazie e che Dio vi benedica!!!!