La croce, il simbolo della sofferenza, è al centro della fede cristiana. Lo scopo della nostra vita potrebbe non essere la felicità ma la nostra maturità spirituale; il conformarci sempre di più a Cristo e strada facendo diventare delle persone che sono disposte a soffrire per servire gli altri. Dovremmo essere delle persone in sintonia con la sofferenza senza cercare di evitarla a tutti costi. Dovremmo fare come Gesù, essere disposti a rinunciare a tutto, servire, amare e anche a morire come Lui ha fatto. In questo studio affronteremo la domanda: “…e allora che si fa?”.
Quali sono i passi che dovremmo fare per diventare delle persone che somigliano più a Gesù, modellate a Sua immagine?
Come già è stato menzionato in altri studi, ogni risposta genererà sempre altre domande. Le domande senza risposta in questa vita prevalgono. La nostra visione lo conferma, l’apostolo Paolo ha detto: “Ora infatti vediamo come per mezzo di uno specchio, in modo oscuro, ma allora vedremo a faccia a faccia; ora conosco in parte, ma allora conoscerò proprio come sono stato conosciuto” (1 Corinzi 13:12). Vorrei che potessimo afferrare ciò che è essenziale per la nostra fede senza cercare di evitare il tema. Il tema in questione non è qualcosa di nuovo per chi frequenta la chiesa da molto tempo, ma spesso noi esseri umani siamo come una striscia di velcro che non si attacca; cioè tanti di questi concetti anche se li abbiamo sentiti da sempre non ne troviamo l’applicazione nella nostra vita quotidiana. Frasi come “prendere la propria croce”, “seguire Gesù”, “essere disposti a dare la vita e soffrire”, risuonano come tante parole vuote.
In occidente siamo abituati ad isolarci dalla sofferenza quindi quando ci tocca, rimaniamo senza parole e sorpresi. Gesù ci ha detto invece che la sofferenza dovrebbe essere la norma per la vita cristiana, quindi ci ha incoraggiato a superare la fase del “Perché?!” e a focalizzarci sul “…e allora che si fa?”. Una volta i discepoli di Gesù senza mostrare interesse o amore verso un uomo cieco e non curandosi del fatto che lui potesse sentire la loro domanda, chiesero a Gesù se la sua cecità fosse dovuta ai suoi peccati o a quelli dei suoi genitori. Vollero utilizzare quell’opportunità per discutere la questione filosofica dell’origine del male. Gesù rispose loro che non era colpa di nessuno, ma che ciò che era successo a quell’uomo era con il proposito di manifestare il potere di Dio. Dio aveva portato tutti a quel punto per compiere del bene. Gesù in quel passo ha voluto insegnarci che dovremmo fare quelle opere di bene, di amore mentre c’è ancora tempo ed è ancora giorno. “Mentre sono nel mondo, io sono la luce del mondo”. (Giovanni 9:1-5). Dal punto di vista cristiano sappiamo bene che Gesù è la Luce, ma Gesù disse anche qualcos’altro. Lui disse di essere la luce del mondo mentre era fisicamente presente, tuttavia in quel momento stava cercando di istruire i Suoi discepoli, esortandoli ad essere luce nelle tenebre. Nel vangelo di Matteo disse “Voi siete la luce del mondo; una città posta sopra un monte non può essere nascosta. Similmente, non si accende una lampada per metterla sotto il moggio, ma sul candeliere, perché faccia luce a tutti coloro che sono in casa” (Matteo 5:14, 15). Gesù ci chiama a continuare a manifestare il Suo ministero a Suo modo nel Suo stile. La Sua spiritualità era una spiritualità di sofferenza, Lui s’incamminava verso di essa senza cercare di evitarla.
Quando il dolore ci colpisce personalmente si attraversa una fase emotiva mai sperimentata prima.
Quando parlo con qualcuno che di solito soffre, sono empatico fino a un certo punto, perché non riesco a percepire fino in fondo ciò che essi, stanno veramente provando interiormente. Con l’aiuto dello Spirito Santo però riesco a sintonizzarmi un po’ meglio, con il loro dolore. Avendo provato anch’io cosa sia la sofferenza e il dolore, riesco maggiormente a comprendere la loro difficoltà. Quando si vive con la propria pelle una stessa situazione di malessere, si acquisisce una particolare intensità emotiva, che prima non esisteva. Perciò comprendo che quando arriva una sorta di travaglio interiore, si sperimenti a livello emotivo qualcosa di interiore, molto acuto. Dal punto di vista teologico però, non dovremmo rimanere sorpresi o sconvolti dal dolore; come cristiani dovremmo esserne preparati. La cosa affascinante, è che la sofferenza spesso, è ciò che fa venire alla luce in noi, ciò che è debole.
Mi spiego meglio; molte persone, solite a sostenere una certa posizione a volte anche con un certo orgoglio, a seguito di una fase di difficoltà nella propria vita, le vedi cambiare, perché solo in quel momento si accorgono di quanto fosse inadeguato il punto sul quale, si erano impuntate. Molti hanno scoperto Cristo grazie alla sofferenza. Prima erano delle persone apatiche alla deriva spiritualmente, ma dopo aver provato un grande dolore prendono coscienza e scoprono la fede. Alcuni cristiani pensano di non dover soffrire, solo perché sono appunto, cristiani; questo è un concetto sbagliato perché in realtà, la sofferenza è qualcosa che dovremmo aspettarci. Dio è stato sempre chiaro in questo, tuttavia è possibile che la nostra delusione derivi dagli insegnamenti della comunità di fede alla quale abbiamo appartenuto e alla quale facciamo parte. Forse gli insegnamenti sono stati mancanti di bersaglio, in quanto, le Scritture sono abbastanza chiare riguardo al tema della sofferenza. E’ possibile che il messaggio sia comunque stato espresso, ma che non sia stato messo in pratica. Speriamo che questo studio metta luce su questo tema. Spero anche che dopo averlo compreso possiamo scegliere di seguire l’esempio di Gesù con tutto il nostro cuore.
Di solito, come si è menzionato prima, il dolore fa cambiare il modo di vedere le cose, a tanti. Questo non dovrebbe essere il caso dei cristiani, perché siamo coloro che dovrebbero vivere una spiritualità sofferente, sempre. In altre parole se non siamo colpiti personalmente dal dolore dovremmo darci da fare e aiutare chi soffre; ciò è anche un tipo di “sofferenza”, perché occuparci del dolore degli altri ci impedisce di poter dedicarci ad altre cose che avremmo preferito. Scegliamo di allinearci al dolore delle persone che soffrono. Se lo mettessimo in pratica, e il dolore ci toccasse personalmente saremmo in grado di valutarne la sua portata e non ne saremmo sorpresi, perché in un certo senso ci saremmo già allenati in quell’area e preparati ad affrontarlo. “Carissimi, non lasciatevi disorientare per la prova di fuoco che è in atto in mezzo a voi per provarvi, come se vi accadesse qualcosa di strano. Ma, nella misura in cui partecipate alle sofferenze di Cristo, rallegratevi, perché anche nella manifestazione della sua gloria possiate rallegrarvi ed esultare” (1 Pietro 4:12, 13). E’ curioso che spesso si rimanga sorpresi dalla sofferenza. Se la nostra fede venisse scombussolata dovuto al dolore, dovremmo chiederci: come mai non eravamo sintonizzati alla realtà del dolore del mondo prima? Il giorno prima che venissimo toccati personalmente, quella stessa cosa stava accadendo a qualcun altro, per caso ciò ci turbava? Perdevamo il sonno chiedendo a Dio come mai lo avesse permesso e la nostra fede traballava? Riflettiamo, veniamo mossi nell’anima soltanto quando le cose brutte ci accadono, ma quando accadono agli altri non ci è causa di disturbo? Nel mondo ci sono persone che sono molestate, abusate, violentate, uccise…orrori, atrocità e malattie varie stanno facendo morire tante persone circondate dai loro familiari che piangono straziati dal dolore. Questa è la realtà. Noi cristiani dovremmo essere consapevoli dell’esistenza del dolore e dovremmo essere sintonizzati con quella dimensione, al posto di chiudere gli occhi. Poi quando ci arriva la sofferenza non dovremmo chiedere “perché?”. La nostra fede dovrebbe essere grande abbastanza per cercare di empatizzare con gli altri al meglio che possiamo e dedicarci ad un Dio che opera tramite questo mondo di dolore, che include anche noi.
Perciò non dovremmo rimanere sorpresi se il dolore tocchi alla nostra porta. Io e la mia famiglia ne abbiamo parlato, come ho menzionato negli studi precedenti, mio fratello morì di cancro, mia madre sta facendo la chemioterapia; due delle mie tre sorelle hanno avuto un tumore. Quindi, è molto probabile che venga anche a me. E’ qualcosa di cui sono cosciente, cioè se dovessi andare in cielo prematuramente a causa di una malattia, molto probabilmente, sarebbe a causa del cancro. Questo è qualcosa di cui abbiamo discusso anche con le nostre figlie dato che questa malattia è molto comune nella nostra famiglia sapendo che tutto avrà il suo corso. Processare questo tipo d’informazione in un modo onesto, aperto e sincero, possiamo riconoscere che la vita è così e che ogni giorno che abbiamo a disposizione, è un dono. Ogni giorno è prezioso. Non avere a che fare con la sofferenza non è qualcosa che Dio ci ha promesso. Il nostro percorso su questa terra tramite la sofferenza ci aiuta a modellarci, è parte della nostra spiritualità. Ora ci stiamo incamminando verso un luogo dove non ci sarà più dolore ma quel giorno non è ancora arrivato. Quindi la nostra teologia su Gesù diventa chiara veramente, solo quando soffriamo. Solo dopo ci rendiamo conto di ciò che credevamo veramente.
A volte scopriamo con sorpresa di non aver seguito la teologia scritturale come avremmo dovuto. Infatti molti di noi potrebbero coltivare (anche senza volerlo) una prospettiva teologica che è più allineata con i leader religiosi che rifiutarono Gesù nel primo secolo. Essi stavano cercando il Re, il Messia che sarebbe venuto e avrebbe migliorato la situazione, qualcuno che li avrebbe liberati dalla loro sofferenza. Qualcuno che avrebbe reso tutto giusto nella loro nazione e che avrebbe facilitato le loro vite. Questa era lo loro idea del Messia quando Gesù disse: “Prendete la vostra croce e seguitemi”, Gesù stava chiamando loro ad una vita di sofferenza, di amare i loro nemici e di offrire la loro vita in sacrificio al servizio degli altri. La maggior parte delle persone di quel tempo non credette alle parole di Gesù ritenendo che non fosse il vero Messia. Per alcuni di noi, quello è il tipo di Messia che desideriamo. Più ci aggrappiamo a quell’immagine di Cristo, più grande sarà il rischio di mancare il vero Gesù che ci chiama verso la sofferenza. Questa è la forma della fede cristiana sin dalla caduta dell’uomo. Dio ha sempre chiamato il Suo popolo a sintonizzarsi con la sofferenza.
Un terzo dei salmi che è il libro di canti d’Israele, il canzoniere di quella nazione, sono i lamenti. Parlano di quanto duro e cattivo sia questo mondo. Fondamentalmente essi seguono uno schema molto semplice: che il mondo fa schifo e che a lui sembra che a Dio non interessi nulla quindi pone la domanda: “fino a quando dovrei sopportare questa situazione?”. Il re Davide finisce sempre anche dichiarando il Suo amore verso Dio. Come si potrebbe paragonare i salmi al nostro libro di canti di oggi? Quanto spesso intoniamo quel tipo di canzoni? Abbiamo espresso all’inizio di questo studio che dobbiamo comprendere veramente che la croce è al centro della nostra fede; la croce rappresenta quel momento di tormento sia fisico che spirituale di Dio. Gesù aveva ogni diritto e privilegio, ma scelse di rinunciarvi offrendo la Sua vita al servizio degli altri, chiamandoci a seguire il Suo esempio. La croce rappresenta l’incoronazione del nostro Re; è la forma del Regno al quale il nostro Re ci sta portando; è la forma della nostra spiritualità. Come possiamo aspettarci qualcosa di diverso? Gesù quando chiese alle persone di seguirlo disse: “Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda ogni giorno la sua croce e mi segua” (Luca 9:23). Le persone in quel tempo sapevano benissimo ciò che la croce significasse. Il discorso evangelistico utilizzato da Gesù era così: “seguirmi significherà soffrire intensamente perché questa è la spiritualità della sofferenza. La troverete quando mi seguirete. Prendete la vostra croce e seguiteMi”. Queste erano le migliori parole di Gesù ai Suoi discepoli. Non venderebbe molto se fosse un rappresentante di commercio.
L’apostolo Paolo disse: ” Ora mi rallegro nelle mie sofferenze per voi, e a mia volta compio nella mia carne ciò che manca ancora alle afflizioni di Cristo per il suo corpo, che è la chiesa” (Colossessi 1:24). Potremmo chiederci se l’espiazione di Gesù sulla croce avesse realizzato ciò che avrebbe dovuto. La risposta è sì, per la nostra salvezza ma non è tutto il piano; Gesù è morto per i nostri peccati e noi siamo portatori di quel messaggio, così che altri possano rispondere. Gesù provvede la grazia, la nostra parte consiste nel diffondere quel messaggio. La fede e la grazia si uniscono. Gesù ha sofferto per i nostri peccati ma noi continuiamo a soffrire per il Suo Regno. L’apostolo Paolo ha detto che tutto il piano non era completo con la croce e la Risurrezione, è completo quando noi portiamo il messaggio della Buona Novella al mondo e perciò si completa soffrendo nel nostro corpo, la sofferenza di Cristo; quella è la forma della nostra spiritualità e ciò che dovremmo aspettarci.
L’apostolo Paolo aveva avuto un passato religioso e aveva condotto una vita privilegiata; era stato un maestro e rabbino rispettato nella sua comunità. Per seguire Gesù fu disposto a rinunciare a tutto. Fu perseguitato, colpito al punto di morte diverse volte e poco tempo dopo aver scritto le sue epistole fu messo a morte come martire, a Roma. L’apostolo Paolo parlava come una persona che aveva sofferto grandemente quando invece, avrebbe potuto avere una vita molto più adagiata. A causa della sua scelta di seguire Cristo si allineò con coloro che soffrivano e patì tanti dolori. L’apostolo Paolo motivò la sua scelta di soffrire con queste parole: “per conoscere lui, Cristo, la potenza della sua risurrezione e la comunione delle sue sofferenze, essendo reso conforme alla sua morte, se in qualche modo possa giungere alla risurrezione dai morti” (Colossessi 1:10, 11). Gesù ha promesso di non abbandonarci, Lui è sempre con noi e abbiamo la speranza di sperimentare la nostra risurrezione, un giorno. Ora la nostra fede ha la forma di una croce e Gesù ci ha chiesto di portarla. La spiritualità dell’apostolo Paolo era cruciforme, lui aveva scelto di fraternizzare con Gesù nella Sua sofferenza per conoscerlo meglio. La parola “comunione” in questo passo nel greco originale è “koinonian” che significa avere intimità faccia a faccia e una collaborazione spalla a spalla per poter compiere qualcosa insieme. Ci avviciniamo a Gesù e poi insieme ci proiettiamo verso il mondo mentre soffriamo, perché il cuore di Dio sta ancora soffrendo, ora.