Dalla serie” Nuova vita”.

Serpenti nella valle parte 1

Gesù, in collaborazione con lo Spirito Santo, ci rimodella, aiutandoci a diventare la versione migliore di noi stessi. Potremmo paragonarlo come ad un aggiornamento spirituale che cambia il nostro sistema operativo; una trasformazione che partendo dal cuore si dirige a tornare alle proprie radici riscoprendo il nostro vero io. L’immagine della rinascita rappresenta tutto questo processo. Quando Gesù affrontò il tema non si riferiva soltanto all’avere una seconda possibilità nella vita ma parlava di un cambiamento, di un nuovo inizio per il nostro spirito, di cominciare da capo e di scoprire tutto un altro modo di vivere. Nello studio precedente abbiamo letto che Nicodemo chiese a Gesù: ” come possono accadere queste cose?”. In seguito approfondiremo la risposta che Gesù gli diede.

Quando ero bambino accompagnai mia madre in un tour in Israele visto che mio padre non riuscì a farlo a causa di un imprevisto impegno professionale. Insieme abbiamo pensato che fosse una buona idea battezzarmi nel fiume Giordano visto che mio zio era il capogruppo della nostra comitiva ed era anche il pastore di una chiesa. Quindi sono stato battezzato “proprio nel luogo in cui Gesù lo fu” ; un fatto buffo visto che questo veniva detto a tutte le comitive di turisti lungo il fiume. Durante quel viaggio siamo saliti fino alla cima del monte Nebo, il monte dove Mosè in età avanzata diede un’ultima occhiata alla Terra Promessa prima di morire. Nella cima di quel monte c’è una scultura cruciforme con serpenti di rame intrecciati creata dall’artista fiorentino Gian Paolo Fantoni che rappresenta un momento della vita di Mosè in particolare. L’immagine del serpente è diventata il simbolo delle cure mediche, un fatto piuttosto insolito visto che i serpenti spesso sono la causa del problema e non il contrario. Esiste una base storica greca e anche ebraica per detto simbolo (un serpente o dei serpenti intrecciati su di un palo). Gesù disse a Nicodemo che c’era un indizio contenuto in quella storia (quando i serpenti ferirono gli israeliti e nel modo in cui venivano guariti) che avrebbe aiutato le persone a capire Lui, la Sua missione e la Sua crocifissione (cioè, la Sua morte a quell’evento).
Gesù ci ha fatto sapere che la rinascita sarebbe avvenuta soltanto tramite la Sua Persona e che poi lo Spirito Santo si sarebbe avvicinato a noi trasformandoci e rimodellandoci nella versione perfezionata di noi stessi. Ciò può accadere soltanto perché le imperfezioni sono state tolte e Gesù ci ha guariti tramite la croce. La Sua morte è collegata in qualche modo alla nostra rinascita spirituale. “E come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che il Figlio dell’uomo sia innalzato, affinché chiunque crede in lui non perisca, ma abbia vita eterna” (Giovanni 3:14, 15). Il termine “innalzato” nel greco originale significa “esaltato”, “onorato” o “lodato” come nel caso di un re che sale sul trono; un modo di riconoscere la gloria di qualcuno. Gesù fece uso di quel termine in altre occasioni quando parlava di come Lui sarebbe stato innalzato sulla croce.
L’apostolo Paolo non utilizzò il termine che la Prima chiesa attribuì alla Risurrezione e all’ascensione di Cristo (“glorificazione di Cristo”) perché aveva scritto gran parte delle sue lettere prima che quel termine fosse stato attribuito a quegli eventi. L’apostolo comprese un aspetto della croce molto bene. Lui mise in evidenza che la croce rappresenta il punto più basso; cioè la discesa di Gesù che era allo stesso livello di Dio, ma scelse di umiliare Se Stesso prendendo la forma di un servo fino al punto di morire. Tramite la Risurrezione e poi l’Ascensione Gesù è stato glorificato. L’apostolo Giovanni qualche decennio dopo approfondì quella riflessione e aggiunse che ciò che l’apostolo Paolo aveva affermato fosse vero ma che riflettendo bene, non significava che Gesù fosse andato incontro al fallimento quando dovette affrontare la Sua crocifissione e che Dio avesse invece utilizzato quell’evento per la nostra salvezza facendo diventare Gesù re.
Nonostante l’apostolo Paolo e l’apostolo Giovanni abbiano enfatizzato aspetti diversi, entrambe le vedute sono d’accordo sul fatto che la crocifissione segnò la sconfitta del regno di satana. Gesù salì sul Suo “trono” come Re trionfante sul male, quindi sulla croce stessa e non dovette aspettare fino al momento della Sua Risurrezione. Gesù fu esaltato e innalzato durante la Sua crocifissione. Più avanti nel vangelo di Giovanni (capitoli 18 e 19) l’immagine che l’autore ci presenta parla dell’incoronazione del nostro Re. Quando Gesù discusse con Ponzio Pilato riguardo se Lui fosse un vero re o no, Gesù rispose di sì stabilendo però che il Suo Regno non appartenesse a questo mondo. Dopo, Pilato fece vestire Gesù con un manto porpora facendolo assomigliare ad un “re” e fu “incoronato” con delle spine. In seguito fece anche un’iscrizione e la pose sulla croce: “GESÙ IL NAZARENO, IL RE DEI GIUDEI”. Quindi, la crocifissione divenne la sua intronizzazione. Chiediamoci, com’è fatto il “Regno” al quale apparteniamo dove l’incoronazione del nostro Re è avvenuta in tal modo? Come potremmo tradurre quel concetto nel modo in cui svolgiamo la nostra vita? Quali dovrebbero essere le nostre aspettative? Cosa significa “conquistare” ed avere il “potere” dell’amore? Potrebbe significare una sconfitta, il dover offrire o perdere la propria vita. Gesù portò avanti la Sua “conquista” agendo in quel modo. L’essere “innalzato” ebbe ed ha due significati: il primo fu fisico e accadde subito sulla croce ma il secondo fu di natura spirituale quando Gesù fu “incoronato” come Re del Suo Regno. “Affinché chiunque crede in lui non perisca, ma abbia vita eterna”. (Giovanni 3:15). Questo processo di credere per poter ricevere e poi diventare dei nuovi esseri spirituali è un concetto affascinante! Come mai Dio non dà questo dono in automatico a tutti? In altre parole come mai ogni volta che qualcuno pecca, Dio non si presenta a loro per annunciargli che Gesù è morto sulla croce per i peccati del mondo e che sono stati resi liberi, sono nati di nuovo, guariti e rifatti? Come mai Dio fece quell’enorme sacrificio per poi offrirlo alle persone lasciandole libere di scegliere di credere in Lui o no? Credere significa avere fiducia. Fidarsi che qualcosa sia vero significa riceverne il dono. Infatti nel primo capitolo di Giovanni nel prologo, l’autore utilizzò i termini “credere” e “ricevere” con lo stesso significato. Significa avere la fede di credere che non si tratti di una presa in giro e di accettarlo senza dubbi. Dio ha creato l’essere umano a Sua immagine e somiglianza e sembra di seguire uno schema lungo la storia dell’uomo che si svolge tramite la collaborazione, il rispetto e l’onorarsi a vicenda. Noi siamo dei portatori dell’immagine di Dio e allo stesso tempo siamo degli esseri imperfetti che spesso mancano il bersaglio e diventano ribelli. Nonostante tutto, Dio si avvicina e onora la Sua immagine in noi offrendoci Se stesso e chiedendoci di credere, senza forzare mai la mano. Il termine “credere” o “avere fede” nel greco originale è “pistéuo”, è un’azione che richiede l’avere fiducia nella relazione tra noi e Gesù e una volta che lo mettiamo in atto riceviamo un dono meraviglioso.
A seguito cercheremo di capire il significato del passo in cui Gesù diede l’esempio di Mosè che innalzava il serpente nel deserto con l’obbiettivo d’imparare da esso e di comprendere come applicarlo al messaggio della croce. “Poi i figli d’Israele partirono dal monte Hor, dirigendosi verso il Mar Rosso, per fare il giro del paese di Edom; e il popolo si scoraggiò a motivo del viaggio. Il popolo quindi parlò contro Dio e contro Mosè, dicendo: «Perché ci avete fatti uscire dall’Egitto per farci morire in questo deserto? Poiché qui non c’è né pane né acqua e siamo nauseati di questo miserabile cibo»…” (Numeri 21:4,5). Gli israeliti in quel caso si stavano comportando come una persona che apre l’armadio pieno di vestiti e si lamenta di non avere nulla da mettersi. In questo passo si evidenzia un atteggiamento negativo presente anche oggi quando non si riesce ad apprezzare ciò che si ha. Gli israeliti si trovavano nel deserto ed è vero che non avessero molta varietà di cibo ma in quel momento non riuscivano ad avere un atteggiamento di gratitudine per il fatto dell’essere ancora in vita, per la loro libertà, per avere l’uno l’altro, per avere un Dio grandioso e per la semplicità nel loro modo di vivere. Sembra che Israele avesse attinto in quel momento da una veduta egiziana su ciò che significasse l’essere liberi. Ricordiamo che diverse generazioni d’israeliti erano cresciute in un ambiente egiziano nel quale esistevano due classi sociali di persone: gli schiavi che dovevano lavorare duramente e le persone libere che erano benestanti abbastanza per essere i loro padroni. Secondo quella veduta le persone “libere” avevano tutto dal punto di vista materiale compreso il potere, la fama e la gloria. Dio li aveva liberati dalla schiavitù per essere “liberi” quindi la loro idea di libertà era stata sconvolta quando si trovarono a vagare per il deserto essendo costretti ad abitare in tende sotto le stelle. Si chiedevano dove fossero le ricchezze, la gloria, la fama ed il potere perdendo di vista la bellezza della semplicità di ciò che significava essere veramente liberi. Così iniziarono i malcontenti. Già era stata una sfida convincere gli israeliti durante le dieci piaghe ad uscire dall’Egitto ma la vera sfida in realtà si trovava nel cercare di far uscire l’Egitto dai loro cuori. Anche noi siamo circondati dal nostro proprio Egitto che cerca sempre di schiavizzarci e anche noi possiamo liberarci da esso. E’ importante però stare attenti a non lasciare che i nostri vecchi standard accompagnino la nostra nuova vita in Gesù perché altrimenti si rischierebbe di non apprezzare la bellezza di una vita semplice che è una vita relazionale in libertà insieme ai nostri cari amici, fratelli e sorelle. Gli israeliti si trovavano in quella situazione ma non riuscivano a vedere il lato positivo di stare insieme in unità con le loro famiglie e amici. La gratitudine non c’era più. Quale dovrebbe essere la forma d’amore in una situazione del genere? Dio era di fronte a tutta una schiera di persone che si lamentavano e che non apprezzavano per niente le cose più importanti della vita.
Nei nostri giorni esiste una subcultura che spinge le persone a lamentarsi troppo, tanti si annoiano facilmente per cose banali come non riuscire a vincere un gioco online, perché non riescono a far funzionare qualcosa o cose del genere. Pensare che uno merita sempre di più in ogni situazione non è positivo perché quando qualcosa non va si crede che la vita sia ingiusta. Quell’atteggiamento crea una subcultura di privilegio che uccide la nostra gratitudine per le cose semplici della vita. In realtà ci troviamo nella stessa posizione dei Figli d’Israele in questa storia. Il vero amore non permette che una persona continui a farsi del male e a degenerare diventando una versione peggiore di sé né s’identifica con chi si lamenta cercando di farsi uno con loro. Il vero amore disciplina. In questo caso si trattava dell’amore di un Padre verso i Suoi figli che stava cercando di disciplinarli per aiutarli a svegliarsi da quell’orribile stato di disconnessione dalla realtà. Avere un atteggiamento di gratitudine equivale ad essere in sintonia con la realtà. Quella è la bellezza del deserto. Il deserto rappresentava il luogo della purificazione e della preparazione per la missione che Israele stava per compiere. Forse anche noi sentiamo di trovarci nel deserto in questo momento e sembra che ci sia stato tolto tanto ma credetemi, questa situazione ha il potenziale di diventare un’esperienza bellissima. Potrebbe essere il deserto della salute, delle relazioni, delle finanze o di diverse cose nella vita che non sembrano di andare in porto e quindi ci sentiamo male come se fossimo stati abbandonati in quello stato per sempre. Cose meravigliose potrebbero nascere se riusciamo ad aprire i nostri occhi e ad apprezzare le relazioni che sono le più importanti e Dio stesso che ci è accanto e che ci ama. Forse potrebbe essere un momento di verità per noi quando riusciremo a vedere la futilità di tutte le cose sulle quali abbiamo posto la nostra fiducia, il nostro atteggiamento potrebbe darci l’ossigeno di cui abbiamo bisogno verso uno stato di gratitudine bellissimo che ci appartiene perché è parte integrante dello spirito umano. Gli altri atteggiamenti non ci appartengono.
Dio utilizzò un metodo scioccante per disciplinare chi si stava comportando in modo viziato e indisciplinato: fece apparire dei serpenti velenosi. Tra l’altro, è importante evidenziare che non è qualcosa che i padri terreni dovrebbero fare con i loro figli. “Allora l’Eterno mandò fra il popolo dei serpenti ardenti i quali mordevano la gente, e molti Israeliti morirono… “. (Numeri 21:6). Da questo evento leggiamo che il popolo d’Israele imparò una lezione importante. Riflettiamo, se Dio desiderava insegnare loro una lezione c’è da dire che chi è stato morso e poi perse la vita non ebbe l’opportunità d’imparare un bel nulla. Quando il giudizio di Dio si abbatte su qualcuno e muore non significa necessariamente che sia la fine di quella persona. Perciò invece di adottare un atteggiamento ateo accusando Dio di aver lasciato morire qualcuno o di aver causato la morte di diverse persone nell’Antico o nel Nuovo Testamento possiamo rispondere in fede che crediamo nella vita eterna ed in un Dio che ci dona la grazia. Perciò, Dio potrebbe aver messo una fine alla loro esistenza su questa terra per diversi motivi ma questo non significa che sia la fine del loro percorso insieme a Dio. “Così il popolo venne da Mosè e disse: «Abbiamo peccato, perché abbiamo parlato contro l’Eterno e contro di te; prega l’Eterno che allontani da noi questi serpenti». E Mosè pregò per il popolo.” (Numeri 21:7) 
a seguire.. parte 2